venerdì 25 maggio 2012

Cari giornalisti, per i "commenti a caldo" usate Twitter

L'ho sentito dire a Gianni Minà, al Festival del giornalismo di Perugia, un mesetto fa: "Trovo comico il giornalismo moderno che fa inseguire le persone per strada [...] per strappare al massimo mezza parola, una parola, un insulto tante volte". L'ho letto pochi giorni fa in un post di Luca Sofri: "un tempo si facevano domande per ottenere risposte, oggi si fanno domande per ottenere reazioni".
Ma soprattutto l'ho provato, con grande fastidio, tutte le volte che in tv assistiamo a quelle scene penose in cui pseudo-inviati rincorrono qualcuno per porre domande insulse, a volte offensive, di certo sempre inutili.
A parte i casi limite in cui al disgraziato rovinato dal terremoto si chiede "Come si sente?", o ai genitori delle vittime innocenti si propina un osceno "Cosa si prova?", il caso più recente che mi viene in mente è l'inviato che aspetta fuori di casa Umberto Bossi, fresco di scandalo per aver lasciato che le casse della Lega si svuotassero a vantaggio dei capriccetti dei suoi figli, e lo insegue col microfono brandito come un'arma per chiedergli: "Come sta?" Alla cui arguta domanda perfino il ruvido Umberto trova la prontezza di rispondere: "Bene!".
La cosa peggiore è che qualcuno ancora pensa che questo tipo di testi siano interviste; no, non lo sono. L'intervista è un genere diverso, che ha qualcosa di più nobile; è una conversazione di tipo asimmetrico tra due o più interlocutori, in cui uno ha il ruolo di fare delle domande e le altre hanno il ruolo di dare delle risposte. Chi fa le domande ha al tempo stesso un potere maggiore, perché in qualche modo "comanda" la conversazione, e un potere minore, in quanto non ha garanzia di ottenere le informazioni che vuole, perché questo dipende dalla volontà, da parte di chi è intervistato, di fornirgliele.
L'intervista è qualcosa di serio: è quella che fa un addetto ai servizi sociali a due genitori che vogliono adottare un bambino, per capire se saranno in grado di allevarlo; è quella che facciamo noi linguisti ai parlanti di una data lingua, per raccogliere dati e studiare quali strategie linguistiche usano per comunicare.
In campo giornalistico, sono interviste le tante effettuate dallo stesso Minà, in tanti anni di bella televisione; è intervista quella della BBC al ministro Frattini, incalzato dalle domande finché non ha fornito qualcosa che somiglia ad una risposta (c'è il video qui sotto). Sono interviste quelle in cui c'è una dialettica tra chi vuol sapere e chi non è sicuro di voler dire; in questa sorta di duello (per riprendere Minà), lo spettatore televisivo apprezza, dall'una e dall'altra parte, l'intelligenza, l'ironia, la capacità di affondare o parare colpi, l'acutezza del ragionamento, l'abilità dialettica.
Non sono invece interviste quelle che mirano a rubare un "commento a caldo", a strappare una reazione (per riprendere Sofri); quello è un altro genere testuale, che forse non ha ancora un nome, e probabilmente nemmeno una dignità.
L'errore che tendiamo a ripetere, ogni volta che nasce e si afferma un mezzo di comunicazione nuovo, è di usare i mezzi vecchi per rincorrerlo, per fare col vecchio quello che è tipico del nuovo. I giornali cartacei, ad esempio, si ostinano ad emulare la televisione, che è per lo più parlata e può trasmettere in tempo reale, infarcendo gli articoli di pseudo-interviste e di stucchevoli virgolettati, per dare l'impressione dell'oralità e della sincronia. Meglio sarebbe raccontarcele, le storie, invece che tentare goffamente di farcele vivere - dopo che sono avvenute - con l'illusione della diretta; raccontarcele con quella magia che una narrazione ben scritta da un sapiente cronista riesce a trasmettere.
Anche la televisione oggi ripete lo stesso errore: già malata di superficialità e di spettacolo a tutti i costi, adesso che si sente surclassata dalla rete anche dove si sentiva imbattibile - nel mostrare i fatti in diretta - si sforza di rincorrerla e di andare più veloce di lei. Battaglia persa in partenza: la rete, i social network, sono lì ancora prima che un fatto succeda, perché i social network siamo noi, e qualcuno di noi è già lì per forza.
E quindi si inseguono i personaggi del momento col microfono sguainato per chiedere loro: "Come sta?" Senza pensare che c'è un luogo dove di "commenti a caldo" ce ne sono centinaia, migliaia, e anche di più (io ne ho raccolti 56.000 dopo il terremoto in Emilia). E non bisogna nemmeno faticare troppo per ottenerli.
Questo luogo si chiama Twitter, il regno del "qui e ora": cari giornalisti, per "reazioni" e "commenti a caldo", per favore, usate Twitter.



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