Viviamo senza dubbio in un momento storico in cui molte idee date per acquisite tendono a rimescolarsi. Le cose diventano il loro contrario, il bianco si trasforma in nero. Anche negli usi linguistici assistiamo a grandi rimescolamenti. Nell’immenso calderone dei social ortografia, grammatica, sintassi, lessico sono continuamente frullati e strapazzati.
Anche turpiloquio e insulti subiscono un’evoluzione. Molti hanno da tempo superato lo status di parole volgari da censurare, per approdare nel porto sicuro del lessico ammesso senza veli in tv o sui giornali. Dei vaffanculo si era già occupato un ex comico ligure anni fa, i chi cazzo sei e non me ne frega un cazzo hanno già ricevuto il timbro di accettazione degli studi televisivi. Ieri la Presidente del Consiglio si è pubblicamente autodefinita quella stronza.
I tempi, si diceva, sono proprio bizzarri e votati al paradosso. Ne mancava una di parola che ancora era avvertita come tabù, anzi forse come IL tabù. Al punto che i giornali fino a ieri ancora la mimetizzavano con gli asterischi (“Mi ha detto 'vatti a mettere seduto fro**o di merda”, scrive Il Fatto Quotidiano il 28 aprile scorso): la F-word, la parola non pubblicabile e impronunciabile alla presenza dei media.
E poi, all’improvviso, avviene l’imponderabile. La F-word è fragorosamente sdoganata, mediaticamente urlata e ribadita, pubblicamente scritta, postata, retwittata, commentata, taggata e condivisa, anche se nella sua versione di nome derivato in -aggine. E a chi va il merito dell’impresa? Chi ci riesce? Il politico coatto? L’improvvido presentatore disattento al microfono rimasto aperto? Il calciatore infuriato al rigore non fischiato? Niente affatto: il Santo Padre. Proprio lui. Il Papa, peraltro parlante non nativo di italiano, che in una riunione a porte chiuse arringa i porporati e li ammonisce a non eccedere in frociaggine (ce lo immaginiamo, con quel suo chiaro accento di ispanofono), perché i seminari già sovrabbondano di tale proprietà. Sociolinguisticamente, è il frutto più eclatante del paradosso dei nostri tempi bizzarri: la persona al mondo da cui il mondo si aspetterebbe l’uso del registro linguistico più formale, più elevato, più sacrale, di certo meno incline ai toni colloquiali e sicuramente per natura antitetico al turpiloquio, ci regala il primo, mastodontico e universale sdoganamento della F-word, in mondovisione.
Di fronte ad un evento linguisticamente così epocale, nulla ormai potrà più linguisticamente stupirci: non il parlamentare che, avendo richiesto la parola in aula, venisse apostrofato con un “Cazzo vuoi?”; non il Presidente della Repubblica che iniziasse il suo discorso di fine anno con un “Minchia!”. Non il presentatore di Sanremo che esordisse nella serata finale del festival con un “Perché Sanremo è una palla!” Cosa sarebbero queste minuzie di fronte ad un Pontefice beccato in flagranza di turpiloquiaggine, mentre scandisce l’impronunciabile parola, ignaro di pronunciarla davanti ad un megafono?
E come potrà la timorata madre rimproverare i figli adolescenti che si insultano a suon di trivialità? “Ragazzi, non dite parolacce!” “Ma mamma, le dice anche il Papa!” Come potrà il curato di campagna rimbrottare i fedeli che si lasciano andare a toni poco urbani, quando il suo capo è il promotore della più grande campagna mediatica di sdoganamento della scurrilità di tutti i tempi?
Viviamo, si diceva, in tempi paradossali. Ci aspettiamo presto un’enciclica De trivialitate mundi, in cui la dottrina delle F-words venga analiticamente formulata.